le origini di uno dei gesti più amati a tavola

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Fare la scarpetta è uno di quei gesti che tutti, almeno una volta nella vita, hanno compiuto all’interno delle mura domestiche senza pensarci due volte. Che si tratti di una salsa al pomodoro, di un intingolo sfizioso o del fondo di una impepata di cozze, usare un pezzetto di pane per raccogliere ciò che è rimasto nel piatto è un piacere a cui è difficile rinunciare. Non ti sentirai un osservato speciale nel farlo a casa, tra pochi intimi, ma sembra quasi una trasgressione agire al ristorante, nonostante in diversi locali si possano ormai trovare proposte di “scarpette ad hoc”, realizzate per valorizzare lievitati e condimenti, ma questa è un’altra storia. A noi interessa la scarpetta originale, non apprezzata dalle buone maniere, ma da Gualtiero Marchesi e dagli chef sì, perché significa che la ricetta è stata molto gradita. Da dove viene questa espressione così curiosa? Andiamo alla sua scoperta.

“Fare la scarpetta”: non c’è una sola spiegazione

Come per molti modi di dire della lingua italiana che si riferiscono al mondo del cibo (dai contadini e le pere, al vino e le botti), non c’è un’interpretazione univoca sul fatto del perché si prenda in riferimento proprio una scarpa, che con la tavola ha poco a che fare. Tra le teorie più popolari spiccano quelle relative alla somiglianza del movimento del pezzetto di pane che, come la punta della scarpa si trascina sull’asfalto, striscia nel piatto, raccogliendo quello che trova davanti, o relative alla forma concava di entrambi, associando il tozzo all’accessorio di piccole dimensioni tenuto in mano. Oppure ancora che, guardando all’etimologia, derivi dal termine dialettale siciliano, “scarsetta”, che si riferisce a una condizione di penuria e di scarsità di cibo, consumando fino all’ultima goccia quello che si aveva nel piatto.

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La storia della scarpetta: un detto che appartiene al popolo

Fare la scarpetta è talmente radicato nella cultura italiana che a venirci incontro è l’Accademia della Crusca: la prestigiosa istituzione, sbirciando tra diversi documenti scritti, ha cercato di tracciare le coordinate sulla comparsa di questa espressione. In sintesi, si tratta di una locuzione familiare e informale, che parte da un modo di parlare popolare del centro-sud Italia, ma sul suo posizionamento cronologico e geografico non c’è un punto fermo.

Dai riscontri, appare per la prima volta nel 1871 sulla rivista La Frusta, all’interno di un dialogo in romanesco con la frase “famme fa la scarpetta a sto tantino de sugo, che c’è arimasto”. A sostenere i natali nella Capitale ci sono anche il Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini (1933) che cita il linguaggio colloquiale di fine Ottocento e inizio Novecento, dove fare la scarpetta vuol dire “Pulir bene, col pane, un piatto ov’è rimasto dell’intingolo di una pietanza che è piaciuta assai” e nel più recente Dizionario romanesco di Fernando Ravaro, pubblicato nel 1994, in cui si specifica l’uso di “un pezzo di pane, o meglio di mollica di pane”. Tornando indietro nel tempo, nel 1885 ecco che “fare la scarpetta” si trova nel volume Saggio su uno studio del dialetto abruzzese di Giovanni Pansa, che l’associa al “ritocchino”, ovvero “quell’ultima leccatina che si dà ad un piatto saporito”, e sempre nell’orbita dell’Abruzzo, eccola nel Vocabolario dell’uso abruzzese (1893) come l’azione di “asciugare col pane l’intinto di una vivanda”.

La prima attestazione in un dizionario non regionale? Sembra essere quella del Prontuario di parole moderne di Angelico Prati (siamo a Roma) datato 1952, che definisce la scarpetta come “fare il ritocchino, pulire il piatto con un pezzetto di pane dopo avervi mangiato”. Bella da citare è la sua accezione sul Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, compilato tra il 1961 e il 2002: nel 1957 si legge una descrizione di Folco Pratesi, il fondatore del WWF, come uomo rispettoso dell’ambiente, che “da anni gira per Roma in bicicletta, fa il bagno non più di una volta alla settimana e non usa nemmeno tovaglie a pranzo per risparmiare acqua, predica persino la civiltà del ‘fare scarpetta’ per limitare i cambi di stoviglie durante il pasto”. Insomma ci fa capire bene come la scarpetta non sia solo un gesto di folclore, ma evita anche gli sprechi, alimentari in primis.

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Qual è il pane migliore per la scarpetta?

Scarpetta è sinonimo di antispreco, quindi il pane va bene tutto: vale la tipologia che si preferisce e che si tende ad avere a disposizione, persino quello in cassetta confezionato. Scarpetta, poi, è anche tradizione: quindi spazio alle rosette, alle mafalde, ma anche alle fette caserecce di una pagnotta pugliese, croccante fuori e morbida dentro, perfetta da maneggiare. Scarpetta, poi, è pura arte: se la mettiamo su questo piano, i gourmand diranno che ci vuole una combinazione di crosta spessa e di mollica soda, che non cede al condimento, ma lo trattiene per formare il boccone intero. A riguardo, merita una menzione il dott. Len Fisher (c’è anche il suo profilo su Wikipedia), ricercatore dell’Università di Bristol che ha dedicato molti dei suoi studi al cibo, con pubblicazioni che spaziano dal modo migliore per inzuppare un biscotto a come trattare il formaggio per preparare un classico cheese sandwich. Tra questi, c’è anche quello del 2001 sul best bread per assorbire una salsa (nel caso specifico era la tipica gravy anglosassone), che decretava la superiorità della ciabatta, grazie alla sua caratteristica alveolatura capace di catturarne una grande quantità.

Il galateo consente la scarpetta?

E qui veniamo alla domanda cruciale: fare la scarpetta è considerato accettabile dal punto di vista del galateo? Il bon ton lo vieta nei contesti formali, in quanto non è un una pratica elegante e raffinata e, in generale, non appare ancora tra quelle concessioni unanimi per cui a tavola di possono usare le mani sporcandole, tipo l’hamburger o la pizza, anche se ormai molti lo considerano (a ragione, verrebbe da dire) sdoganato. Si potrebbe fare infilzando velocemente il pane con una forchetta: l’obiettivo di ripulire il piatto sarebbe ugualmente raggiunto, certo, ma non resterebbe nulla di quel rito godereccio e liberatorio per cui la scarpetta è tanto amata.



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