Ha stato Conte – Il Fatto Quotidiano

Pnrr: Peracottari non raziocinanti ridicoli. In 8 mosse.

1. Il 23.3.2020, in pieno lockdown, Conte e altri otto premier del Sud Europa lanciano un piano di ripresa post-Covid finanziato con Eurobond: no di Merkel, frugali del Nord e fronte di Visegrad. I giornaloni se la ridono: “L’azzeccagarbugli con la pochette andrà a sbattere, prenda il Mes”.

2. Il 21.7, dopo tre giorni e tre notti di battaglia al Consiglio Ue, mentre i giornaloni scrivono che quei soldi non ce li daranno mai o saranno molti meno, il Recovery passa all’unanimità e l’azzeccagarbugli torna a Roma con 209 miliardi: 36 più del piano Ursula. Pure Meloni, Salvini, B. e Renzi si complimentano. Ma FdI si astiene sul Pnrr sia in Ue sia in Italia.

3. Il governo Conte scrive il Pnrr e progetta una cabina di regia a Palazzo Chigi con il premier, Gualtieri (Mef), Patuanelli (Mise), 6 top manager e 300 tecnici per controllare progetti e gare. Renzi e Salvini gridano al golpe, Repubblica evoca i quadrumviri del Duce, Sole 24 OreCorriere&C. bombardano all’unisono.

4. Gennaio 2021. In piena seconda ondata Covid, si scrive il Pnrr e partono i vaccini: il momento giusto per rovesciare Conte. Ci pensa Renzi, previe consultazioni con Mancini in autogrill e Verdini a Rebibbia, col plauso di Confindustria e giornaloni al seguito.

5. Il 2.2 Mattarella chiama Draghi, che completa il Pnrr e lo snatura: via il salario minimo, meno fondi al green e alla sanità, dentro l’idrogeno blu e lo stadio di Firenze (voce “Cultura”). La cabina di regia passa da Chigi al Mef, con migliaia di tecnici, ma ora niente scandalo. Renzi scopre che i 209 miliardi “non li ha portati Conte, ma un algoritmo olandese”. Molinari rivela su Rep che “il governo Draghi è riuscito a ottenere la maggioranza dei fondi del Next Generation Eu” (il Pnrr).

6. Il 22.12 Draghi si candida al Quirinale: “Abbiamo raggiunto i 51 obiettivi del Pnrr e creato le condizioni perché il lavoro sul Pnrr continui, indipendentemente da chi verrà”. Ma viene trombato, accumula altri ritardi sul Pnrr e fa casino con le assunzioni nella Pa.

7. Il 25.10.2022 Meloni va al governo e riporta la cabina di regia sul Pnrr dal Mef a Chigi, come voleva fare il golpista Conte. Si perde altro tempo. L’Ue se ne accorge congela la nuova rata.

8. Bisogna incolpare qualcuno. Stagnaro: “La responsabilità è di Conte e Draghi: hanno scelto di chiedere integralmente i fondi europei”. Borgonovo: “Siamo la nazione che ha chiesto più soldi, non si capisce perché. Ci troviamo una marea di soldi di cui non abbiamo bisogno”. Bernabé: “Si sapeva che non avremmo saputo spenderli, ma Conte chiese lo stesso tanti soldi”. Quindi non solo li ha portati Conte, non Draghi o l’algoritmo olandese. Ma ne ha portati troppi. Si vergogni.

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Giucas Cassese – Il Fatto Quotidiano

Dopo cinque mesi ci domandavamo cosa aspettasse il governo Meloni a rispondere alle reiterate avance di Sabino Incassese e a retribuirlo per i suoi molesti e mai gratuiti preliminari. In una settimana hanno sistemato l’emerito vegliardo (87 anni) su ben due poltrone. Calderoli l’ha nominato presidente del “Comitato per individuare i livelli essenziali delle prestazioni per l’Autonomia differenziata” e il sottosegretario Barachini l’ha issato alla presidenza del “Comitato che dovrà individuare le agenzie di stampa di rilevanza nazionale”. Roba forte. Il primo Comitato è un’Rsa con 61 combattenti e reduci, fra cui Amato, Violante, Ignazio Visco, Blangiardo, Bassanini, La Loggia, Severino e Finocchiaro. Nel secondo sono solo in sei. E l’Emerito li ha accettati entrambi in base a un’aulica versione del motto Franza o Spagna purché se magna illustrata al Foglio: “Lo Stato non è di questo o di quello, ma è di tutti”. Cioè suo. I governi, per lui, non si dividono in progressisti o conservatori, tecnici o politici: ma fra quelli con Cassese (e la sua tribù di allievi e protégé) e quelli senza. Come nel canottaggio. Prima di giudicarli, lui ci prova con tutti. Nel 2018 esaltò le “qualità personali” di Conte, “meglio di Gentiloni”. Poi quello declinò i suoi consigli sulle nomine. E lui iniziò a strillare alla lottizzazione, come chiama le nomine senza i suoi (quelle coi suoi sono normale spoils system). Conte divenne “pirata”, “usurpatore”, autore di “Dpcm illegali” e l’emergenza Covid roba da “Orbán”. Poi Draghi, luce dei suoi occhi, reimbarcò la tribù cassesiana e i Dpcm e lo stato d’emergenza tornarono sacrosanti.

Appena il Migliore passò la campanella a Giorgia, l’emerito riorientò la lingua verso la premier. Brava sul presidenzialismo, bravissima sull’Autonomia, magnifica per “robusta collocazione internazionale e solido orizzonte ideale: liberale, democratico e antifascista”. Le emerite pre-slinguate meritavano almeno due cadreghe, che ora producono post-leccate: viva la baggianata salviniana del Ponte (“un ulteriore legame in una nazione che si percepisce tanto disunita”), viva Giorgia e il suo comico “globo terracqueo” (“nel processo di universalizzazione del diritto, sono molti i modi per universalizzare norme ‘locali’”). Cosa non si fa per non fare l’umarell ai cantieri e non stare “a casa a dar fastidio alla moglie e ai figli”: tanto – garantisce Giucas Cassese – “se più anziani lavorano, potranno esserci più posti per i giovani”. Infatti per lui due presidenze sono poche: diamogliene una ventina e quello ci crea un milione di posti di lavoro. Poi, se gli resta tempo, gli mettiamo una fascia al braccio e lo mandiamo a dirigere il traffico davanti alle scuole. Così arriviamo alla piena occupazione: la sua.

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Caramelle dagli sconosciuti – Il Fatto Quotidiano

L’analisi clinica sui guerrafondai è tutta nelle parole che usano, con aria fra lo svagato e l’annoiato, senza neppure accorgersi dell’enormità di ciò che dicono e tacciono. Anche perché è quasi sempre roba d’importazione, made in Washington o in London. Ora, per dire, sono tutti eccitati per la prossima “controffensiva” ucraina che seguirà o anticiperà la prossima “controffensiva” russa: una doppia mattanza. A che pro? Quando ancora ci si capiva qualcosa, era chiaro che la Russia aveva attaccato dal 24 febbraio 2022 occupando quattro regioni ucraine (Donetsk, Lugansk, Zhaporizhzhia e Kherson), pari a un quinto-un sesto del Paese; poi a settembre Kiev aveva contrattaccato, recuperando una modica quantità di territori, per poi subire una lenta e faticosa controffensiva russa prima del gelo. Tutti gli esperti veri, come i generali Milley e Cavo Dragone, ne avevano dedotto che: una riconquista dei quattro oblast (per non dire della Crimea) è mission impossible; la “vittoria” di Kiev è una pia illusione; e l’unica soluzione è il negoziato con compromessi territoriali. In attesa che gli Usa e quel che resta dell’Ue presentino un piano, la Cina avanza il suo. È inevitabilmente vago (dei dettagli si parla in segreto) e colpevolmente unilaterale (Xi l’ha esposto a Putin, non ancora a Zelensky), ma è l’unico sul tavolo. Parte dal cessate il fuoco, che noi ingenui credevamo fosse il primo e più auspicabile obiettivo: tantopiù che tutti assicurano che Putin ha già perso la guerra. E poi il 1° marzo ’22 fu il ministro ucraino Kuleba a chiedere a Pechino di “mediare con Mosca per un cessate il fuoco”.

Invece, prim’ancora di un rifiuto di Mosca (e magari di Kiev) alla tregua, è giunto quello degli Usa. Che l’han respinta perché “adesso avvantaggerebbe i russi” (ma non avevano perso la guerra?). E hanno intimato a Zelensky di non accettare tregue dagli sconosciuti, peggio se cinesi. Per non avvantaggiare Putin, gli ucraini devono restarsene lì sotto le bombe a farsi sterminare almeno un altro annetto e mezzo, fino al novembre 2023, così Biden può farsi la campagna elettorale per la rielezione. Poi, se vince, seguiteranno a farsi macellare. Se invece torna Trump, addio armi e proiettili agli ucraini, ai quali non resterà che la resa, oppure altri massacri senza più difese, visto che nessuno avrà messo in piedi uno straccio di negoziato. E tutto questo, attenzione, dovrebbero farlo per il loro bene. Anziché chiamare un’ambulanza e inviarla alla Casa Bianca, il portavoce-consigliere di Zelensky, Podolyak, ha respinto l’idea del cessate il fuoco evocata da Xi Jinping perché – udite udite – “ogni tentativo di congelare il conflitto lo farebbe protrarre”. È il nuovo Comma 22: per fermare la guerra, bisogna proseguirla. E tutti morirono felici e contenti.

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Travaglio a La7: “Il governo si dimentica di chi non arriva a fine mese e si sta occupando di non disturbare gli evasori fiscali” – Il Fatto Quotidiano

Nella puntata di mercoledì 29 marzo a Otto e Mezzo (La7) si discute di lavoro e salario minimo con Diego Della Valle, Massimo Cacciari e Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano ha attaccato il governo Meloni sulle ultime scelte messe in campo dall’esecutivo: “Pubblicheremo sul Fatto una serie di lettere di giovani e […]

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Processi somari – Il Fatto Quotidiano

Nella fauna e nella flora dei liberi docenti di satira che spiegano a Mannelli cos’è e come si fa una vignetta (confondendola con le caricature, le barzellette, il Bagaglino e le scoregge dall’ascella), svettano quelli che “il Fatto insulta”. Quindi, sottinteso, è ovvio che lo faccia anche Riccardo Mannelli. Che non è un artista di 68 anni che ha lavorato in tutte le riviste satiriche dell’ultimo mezzo secolo – HelpMaleCuoreBoxerSatyriconTangoCuoreLinus –, svignettato e disegnato per EuropeoStampaMessaggeroLotta ContinuamanifestoRepubblicaL’Écho des Savanes (in Francia), HumourPagina 12 (in Argentina) e Fatto, ha esposto alla Biennale di Venezia e satireggia su chi gli pare. No, è un killer attivato dal suo direttore perché “insulti” questo e quello, o vendichi Padellaro dopo un dibattito con la madonnina infilzata. Leggete questo scampolo di prosa malferma: “Ma in un quotidiano dove a essere zeppi di insulti, ingiurie e storpiature sono gli editoriali, che vi aspettavate dalle vignette, Raffaello?”. È di Stefano Cappellini, che nessuno lo sa, ma è nientemeno che editorialista di Repubblica: e non lo sa neanche lui, altrimenti saprebbe anche che Mannelli collabora come illustratore con Repubblica. Lui però non solo non sa cosa sia la satira, ma neppure l’insulto: infatti, mentre accusa gli altri di insultare, insulta. Ieri, per dire, accusava Orsini di “cialtroneria”.

Quindi per lui dare del cialtrone a un professore che previde l’invasione russa dell’Ucraina nel 2019, quando lui probabilmente pensava che il Donbass fosse un prete nano, non è un insulto. Oppure per lui le critiche ai suoi amichetti sono insulti e gli insulti ai suoi nemici sono critiche argomentate. Infatti non risultano tweet indignati di Cappellini quando sul suo giornale Francesco Merlo paragonò Grillo a “quel Malpassotu che, da un buco della campagna siciliana, masticando odio e cicoria, scagliava i suoi pizzini per sfregiare i nemici e umiliare gli innocenti” (U Malpassotu, alias Giuseppe Pulvirenti, è il boss sanguinario catanese reo confesso di una faida da 100 morti l’anno). Qualcuno penserà che Cappellini difenda Mannocchi perché è donna. Ma è altamente improbabile. Sennò avrebbe difeso Virginia Raggi dagli insulti sessisti che la sommersero per cinque anni da sindaca. Invece, mentre Libero la chiamava “patata bollente” e la Verità “Forrest Gump con fama di mantide”, Repubblica s’inventò che Salvatore Romeo, nella causale delle due polizze che aveva intestato alla Raggi in caso fosse morto, aveva scritto “relazione sentimentale”. Tutto falso. E chi fabbricò la fake news? Cappellini. Che poi ovviamente non rettificò né si scusò per la diffamazione sessista. Ma forse, per lui, quella era satira.

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